di Domenico Amirante
Dall’inizio del 2020 siamo tutti coinvolti in una crisi sanitaria globale diversa da qualsiasi altra nella nostra vita. Il Covid-19 rappresenta infatti non solo una minaccia per la sopravvivenza di milioni di persone, ma anche uno shock culturale e morale per l’intera umanità. Abbiamo improvvisamente scoperto che la nostra fragilità intrinseca, inscritta in ogni Dna umano, non può essere completamente protetta dalla tecnologia, da un’economia fiorente o da qualsiasi approccio “securitario” (proveniente dalle organizzazioni internazionali, dallo Stato o dalla corporate governance).
Ma il dato più importante da sottolineare è che questa crisi non è un evento episodico, fortuito e nemmeno preparato a tavolino (come nelle assai poco credibili ipotesi dei complottisti): il Covid-19 è solo l’ultimo di una serie di eventi catastrofici legati al degrado dell’ambiente di vita sul pianeta terra susseguitisi nell’ultimo decennio. Basti pensare all’impressionante escalation di eventi estremi legati ai cambiamenti climatici: alluvioni, tornado e uragani di intensità mai sperimentata prima, incendi di estensione e violenza senza precedenti, riscaldamento e innalzamento del livello del mare, desertificazione e siccità, persino in regioni (come quella del Mediterraneo) fino a ieri ‘baciate’ da climi temperati. E se rivolgiamo lo sguardo ad un anno fa (estate 2019) ricorderemo, in rapida successione, gli incendi in Amazzonia e in Angola, l’acqua “altissima” a Venezia, la tremenda ondata di bushfire che ha distrutto circa 19 milioni di ettari di natura in Australia, senza dimenticare i diversi uragani degli Stati Uniti, alternati agli incendi californiani, che non hanno risparmiato neanche la jet set society hollywoodiana. E mentre si piangeva lo scioglimento del permafrost siberiano (e la scomparsa di qualche ghiacciaio italiano) è arrivato il nuovo coronavirus, emblematico perché, diversamente dalle catastrofi che ho appena menzionato, tocca “tutti” quasi contemporaneamente.
Ma cosa c’entra il Covid-19 con il degrado dell’ambiente?
In realtà è facile rispondere a questa domanda perché la stretta relazione tra la pandemia in cui ci troviamo oggi e il degrado ambientale appare evidente, per diversi motivi. La tesi più accreditata sul prodursi di nuove malattie e pandemie è infatti quella della correlazione fra degrado ambientale e “salto di specie” dei virus dagli animali all’uomo. A fare il resto ci pensa la globalizzazione che veicola la diffusione del virus con i suoi continui scambi a livello planetario: è il famoso “effetto farfalla”, anche se in questo caso la farfalla si è trasformata in un pipistrello. Questa tesi è portata avanti non da intellettuali contro-egemonici o attivisti ambientali, ma dagli organismi internazionali che si occupano della questione, in Reports sempre più allarmanti. Già nel 2016, infatti, il Frontiers Report dell’Unep ricordava che «circa il 60% di tutte le malattie infettive negli esseri umani sono zoonotiche», avvertendo che «non sono mai esistite così tante opportunità per i patogeni di passare dagli animali selvatici e domestici alle persone, attraverso l’ambiente biofisico, causando malattie zoonotiche o zoonosi. Il risultato è un aumento esponenziale delle malattie zoonotiche emergenti e dei focolai di zoonosi epidemiche». Questa consapevolezza ha portato alla Risoluzione 2017 dell’Unep su Ambiente e Salute, dove si ribadiscono «le forti interconnessioni tra ambiente e salute, comprese le disuguaglianze sanitarie», e l’importanza di «affrontarle congiuntamente implementando l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile». Più di recente, nella dichiarazione dell’Unep sul Covid-19, la direttrice esecutiva Inger Andersen, denunciando che «distruggere la natura e degradare gli ecosistemi, mette in pericolo la salute umana», ha dichiarato ufficialmente che «il 75% di tutte le malattie infettive emergenti sono zoonotiche, ovvero virus originati dal trasferimento da animali, domestici o selvatici, all’uomo».
Sotto un diverso profilo, l’attuale emergenza ha introdotto nuovi elementi di analisi, attraverso numerosi studi sull’esposizione all’inquinamento atmosferico e sulla mortalità da Covid-19, accrescendo le preoccupazioni sul legame tra inquinamento e diffusione di virus. In Europa e, in particolare, in Italia, la maggiore gravità della pandemia nella sua fase iniziale in aree altamente inquinate e industrializzate (es. Milano o altri distretti industriali) conferma le evidenze di questi studi.
Ma le difficoltà economiche che ci ha portato il nuovo virus aprono anche a considerazioni diverse, cioè quelle relative al legame fra virus, ambiente e sviluppo. Stiamo cominciando a capire a nostre spese che i danni ambientali e le crisi sanitarie rappresentano non solo minacce per la natura (e quindi per la salute umana) ma anche per l’economia. In questa prospettiva, Adam Tooze, uno storico della Columbia University, ha suggerito recentemente che «stiamo vivendo la prima crisi economica dell’Antropocene». I giuristi non hanno molta familiarità con questa parola, ma chi si occupa di ambiente sa bene che Antropocene designa l’era geologica contemporanea in cui l’impatto ecologico dell’umanità sta determinando un cambiamento dell’atmosfera e più in generale un degrado delle basi naturali della vita sulla terra. La natura ha però iniziato a rispondere in maniera violenta, imprevedibile e spesso disastrosa. Secondo Tooze se è vero che «la grande accelerazione che ha prodotto l’Antropocene è probabilmente iniziata già nel 1945, è solo nel 2020 che ci troviamo di fronte alla prima crisi in cui il contraccolpo destabilizza tutta la nostra economia». E se i cambiamenti climatici richiedono all’uomo della strada uno sforzo d’immaginazione per guardare al quadro generale (perché il nesso causale tra cambiamento climatico e disastri naturali è meno evidente), la novità del Covid-19 è che porta i rischi dell’Antropocene a casa di ciascuno di noi e sconvolge le nostre abitudini quotidiane, sia individuali che collettive.
Al tempo dell’Antropocene e della globalizzazione dobbiamo guardare da vicino ai rapporti fra ambiente e salute, ambiente ed economia, ma anche imparare da quanto è stato già elaborato dal diritto, dalla legislazione e dalle politiche ambientali per affrontare il problema dei rischi incerti e/o imprevedibili. Il diritto ambientale ci ha infatti insegnato ad affrontare quotidianamente i rischi: quasi ogni attività umana comporta rischi e trasformazioni (graduali o improvvise) dell’ambiente.
Ma non tutti i rischi sono uguali! Ad esempio, le dispute oggi in corso sulle misure di emergenza e sulle restrizioni ai diritti individuali e alle libertà legati al Covid-19 normalmente non tengono conto di un elemento fondamentale: non siamo di fronte a una emergenza “ordinaria”, come quella relativa a terremoti, inondazioni, incendi o altri disastri naturali, rispetto ai quali abbiamo standard, protocolli e regole di risk management. Stiamo combattendo contro un nemico sconosciuto che porta con sé rischi indefiniti e imprevedibili. Pertanto, la situazione che stiamo affrontando non è paragonabile né alle emergenze naturali conosciute, né a quelle politiche, spesso previste e codificate da molti testi costituzionali, derivanti da guerre, invasioni, rivolte armate, attacchi terroristici. Tutti questi contesti richiedono l’uso di “misure preventive” (in applicazione del principio di prevenzione) contro un nemico già noto e prevedibile. Al contrario, il Covid-19 ci pone in uno scenario diverso, perché stiamo affrontando una minaccia che non possiamo vedere. Non è solo un’emergenza, ma un’emergenza sconosciuta.
Il dibattito costituzionalistico sulle emergenze costituzionali ha spesso utilizzato indifferentemente e con superficialità termini come prevenzione, misure preventive, precauzione, principio di precauzione, spesso confondendoli fra loro. È il caso della discussione sul cosiddetto precautional costitutionalism, opportunamente richiamata di recente su Diritti comparati da Buratti e Martinico. Questo filone è stato aperto negli Usa da un articolo innovativo di A. Vermeule (seguito da un libro) sul principio di precauzione nel diritto costituzionale, dove l’autore considera la precauzione «un principio fondamentale in base al quale le costituzioni dovrebbero essere progettate per prendere precauzioni contro i rischi politici». Tra i rischi politici associati al principio precauzionale A. Vermeule elenca l’abuso di potere, la tirannia (intesa come dittatura del Parlamento o del governo), l’oppressione da parte di maggioranze politiche e altri. Il fatto è che questi “rischi” sono altamente noti e prevedibili, rappresentando possibili degenerazioni di un sistema democratico. In tali casi il diritto costituzionale non può adottare un (generico) approccio precauzionale, ma deve basarsi su un approccio di carattere preventivo, che enumeri i casi (noti e prevedibili) ai quali dovrebbero essere applicate misure di prevenzione. Siamo quindi in uno scenario completamente diverso rispetto a ciò che stiamo vivendo oggi con il Covid-19. Per inquadrarlo correttamente può essere utile riflettere sui risultati raggiunti dal diritto ambientale.
In effetti, per i giuristi ed i manager ambientali il Covid-19 rappresenta un tipico scenario da principio precauzionale, radicalmente diverso da quello preventivo. In materia ambientale infatti (ma questo vale, ovviamente, anche per quella sanitaria), quando c’è sufficiente conoscenza scientifica di un pericolo (ad esempio l’inquinamento atmosferico), il principio preventivo conduce legislatori e amministratori ad applicare alcune scelte restrittive (come il blocco della circolazione) per prevenire o limitare i danni all’ambiente. In tali casi l’evidenza scientifica facilita l’adozione delle misure preventive.
Ma quando ci troviamo di fronte, come nella crisi attuale, a una situazione di incertezza scientifica, dobbiamo applicare il principio precauzionale. Deve esser chiaro che questo principio non si riferisce ad una generica precauzione da “buon padre di famiglia”, ma ad un approccio anticipatorio, sintetizzato normativamente dalla Dichiarazione di Rio (su ambiente e sviluppo) già nel 1992. Il principio 15 della dichiarazione spiega chiaramente come «in caso di rischio di danni gravi o irreversibili, la mancanza di una piena certezza scientifica non può essere utilizzata come motivo per rinviare misure […] atte a prevenire il degrado ambientale». Ancora più esplicita è la Comunicazione della Commissione europea che nel 2000 ha chiarito come «il principio di precauzione deve essere applicato tramite un approccio sull’analisi del rischio, che comprende tre elementi: valutazione del rischio, gestione, comunicazione del rischio». Sempre secondo la Commissione Ue, le misure (in genere cautelative) prese in base al principio precauzionale devono essere proporzionate al livello di protezione scelto, non discriminatorie quanto all’ambito di applicazione, coerenti con misure analoghe già adottate, basate su analisi costi/benefici (di tipo economico e non), soggette a revisione alla luce di nuovi dati scientifici. Si tratta quindi di un principio tutt’altro che generico o ingiustificato, al contrario, è uno strumento basato sull’analisi dei rischi e parametrato sempre sul livello di protezione che il decisore politico/amministrativo dichiarerà, assumendosene le responsabilità. Applicare il principio precauzionale non è quindi né una decisione meramente tecnica, né una scelta emozionale dettata dalla paura.
Affrontando l’emergenza Covid-19 – il più classico dei rischi gravi e irreparabili in contesto di incertezza scientifica – quanti Stati hanno correttamente applicato il principio precauzionale? Quanti ne hanno seguito il protocollo dichiarando la gravità del rischio potenziale, valutando pubblicamente l’accettabilità/non accettabilità sociale del rischio, assumendo misure proporzionali rispetto al rischio stesso?
Alla luce di questi interrogativi (che mettono impietosamente in risalto la condotta irresponsabile di alcuni grandi Stati “negazionisti” quali Usa, Canada, Gran Bretagna, lo stesso Brasile di Bolsonaro) si può rivalutare il percorso intrapreso dall’ordinamento italiano che, in assenza di specifiche disposizioni costituzionali, ha basato inizialmente le misure urgenti sul decreto-legge n. 6/2020. In un discorso alla Camera del 30 aprile 2020, Giuseppe Conte ha infatti giustificato tali misure con un riferimento esplicito al principio di precauzione, applicato a seguito di un’analisi dei rischi offerta al governo dal (tanto vituperato) Comitato tecnico scientifico appositamente nominato. In questo caso gli esperti non hanno “dettato misure” al governo, ma semplicemente disegnato lo scenario dei possibili rischi, in base al quale questo ha poi potuto assumere le decisioni del caso, assumendosene le relative responsabilità politiche.
Di fronte alla prospettiva di dover affrontare in futuro emergenze ambientali a cui non siamo abituati (e per le quali i nostri territori non sono attrezzati) e nuove malattie, sarebbe molto utile che il dibattito politico e quello costituzionale si orientassero verso i temi che ho qui evocato, in primis quello della “sicurezza ambientale” che è strettamente collegato alla sicurezza sanitaria. D’altra parte, lo stesso Recovery Plan, la risposta europea alla crisi del Covid-19, prevede al suo interno un volano importante per la lotta al cambiamento climatico, il Just Transition Fund, in un contesto generale di grandi investimenti orientati verso la transizione climatica. Nelle parole di Ursula von der Leyen: «se vogliamo investire miliardi di euro per riavviare la nostra economia dovremo evitare di ricadere in vecchie abitudini inquinanti e […] il Green New Deal europeo dovrà essere il motore della rinascita». Non si tratta solo di dare qualche “pennellata di verde” alle aziende, ma di ripensare in termini complessivi al rapporto fra economia, ambiente e territorio, prospettiva nella quale il diritto può svolgere un ruolo centrale. Lo stesso concetto di sicurezza come lo abbiamo concepito finora dovrà evolversi, dando priorità alla sicurezza ambientale e sanitaria, gli ambiti nei quali, oggi più che mai, si combatte la battaglia per la difesa della vita, di tutti.