di Salvatore Bonfiglio
Dopo l’indisponibilità del vicepresidente Mike Pence a esercitare i suoi poteri e doveri – secondo quanto previsto dal XXV Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, per destituire rapidamente il Presidente in carica – la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti d’America il 13 gennaio 2020 ha votato, per la seconda volta, la richiesta di impeachment per Donald Trump. In tale circostanza anche dieci esponenti del partito repubblicano hanno votato a favore di questo esito.
La Camera ha dunque deliberato la messa in stato di accusa per incitamento all’insurrezione negli ultimi giorni della presidenza Trump, pur sapendo che il Senato – in funzione giudiziale e presieduto dal capo della Corte Suprema – non farà in tempo a concludere la procedura entro il 20 gennaio 2020. Che senso ha portare a termine l’impeachment di un ex Presidente? Valutiamone brevemente le conseguenze giuridiche e politiche.
Se il Senato dovesse condannare Trump con la maggioranza dei due terzi dei voti, allora potrebbe anche vietargli di presentarsi alle prossime elezioni, non solo presidenziali. Del resto, una clausola della Costituzione prevede anche l’interdizione da qualsiasi ufficio pubblico nei casi di impeachment: per la Disqualification Clause (XIV Emendamento, Sez. 3) è necessario un secondo voto, ma in questo caso basta la maggioranza semplice che i democratici hanno nel nuovo Senato. Inoltre, anche i senatori repubblicani questa volta avrebbero un preciso interesse a votare insieme ai democratici l’impeachment: oltre ad affermare un importante precedente di condanna nei confronti di un Presidente che ha incitato all’insurrezione, pur avendo giurato di preservare, proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti d’America (Art. II, Sez. 1), essi potrebbero così evitare il rischio che Trump possa presentarsi alle primarie repubblicane oppure candidarsi come indipendente, in alternativa non solo ai democratici, ma anche agli stessi esponenti del Grand Old Party.
Entrambi i partiti sembrano questa volta uniti dall’interesse a votare l’impeachment, perché l’assalto al Campidoglio è stato un vero e proprio attentato alla Costituzione, una macchia nella storia degli Stati Uniti.
Hanno fatto il giro del mondo le immagini dell’attacco e della violenza: essa è certamente stata alimentata dalla campagna di odio che ha caratterizzato la presidenza Trump. Quella violenza, però, ha radici così profonde da essere una costante della vita americana: dall’assassinio di Martin Luther King alla morte di George Perry Floyd, ucciso con un ginocchio sul collo tenuto per molti minuti da un agente di polizia. Una violenza causata da profonde fratture di varia natura: sociali, economiche, culturali, razziali e religiose.
Dopo quanto sopra detto, sarebbe comunque sbagliato pensare di accostare i partecipanti del tumulto ai 74 milioni di elettori che hanno votato per Trump. Tuttavia, deve far riflettere che questi elettori, a differenza della precedente elezione del 2016, sapevano perfettamente per chi stavano votando. Infatti, il Partito Repubblicano, popolarmente noto come Grand Old Party, durante la presidenza di Trump si è molto radicalizzato, anche grazie alla presenza di un partito debole e personale. È dunque molto probabile che una parte consistente dell’elettorato repubblicano dei distretti di destra profonda continui a mantenere una solida base “trumpista”, in grado di esercitare un peso politico nelle circoscrizioni più piccole per l’elezione, tra due anni, dei membri della Camera dei rappresentanti. Per questa ragione, nei giorni precedenti la messa in stato di accusa, molti esponenti repubblicani della Camera bassa hanno deciso di continuare a schierarsi con il Presidente in carica contro i presunti “brogli elettorali”, benché Trump avesse già esperito senza successo ogni via consentita dall’ordinamento giuridico per contestare il risultato elettorale.
Ciò conferma che partiti deboli e personali possono indebolire le istituzioni democratiche: questo vale, in particolare, in contesti in cui i partiti sono dominati da personalità autoritarie e risulta evidente una profonda spaccatura politica tra gli elettori urbani (con un maggiore grado di istruzione) e gli elettori residenti nelle zone rurali. Non è detto, dunque, che la fine della presidenza di Trump sia anche la fine del trumpismo, dei populismi e dei fenomeni di radicalizzazione politica, alimentati anche da poteri “invisibili” nello spazio pubblico digitale sregolato.
Del resto, la sconfitta di Donald Trump, nonostante questi abbia tentato con tutti i mezzi di rovesciare i risultati delle elezioni presidenziali, conferma quanto sia importante la separazione dei poteri. È stato il Congresso a certificare la vittoria di Joe Biden alla Casa Bianca; ancor prima, è stata (anche) la Corte Suprema a respingere i ricorsi, sostenuti dal Presidente sconfitto, che miravano ad invalidare il voto di quattro Stati a favore di Biden. Forse il Presidente repubblicano Trump sperava che la Corte Suprema, composta da giudici con un orientamento più vicino ai repubblicani che a quello dei democratici (grazie alle nomine compiute nella presidenza ormai al termine), fosse incline ad adottare decisioni a lui più favorevoli.
La Corte Suprema ha svolto «un effettivo ruolo equilibratore nei confronti del Presidente» (Mortati) ed è stata capace di realizzare una funzione di controllo conforme al meccanismo di checks and balances. Il suo prestigio, d’altronde, è confermato anche sul piano simbolico dal fatto che nel cosiddetto Inauguration day, cioè il giorno del giuramento del nuovo Presidente, la cerimonia è presieduta dal vertice della Corte suprema (Chief Justice).
Certamente le procedure legali hanno retto alla prova della sfida trumpista; più in generale, le istituzioni statunitensi e le forze dell’ordine hanno dimostrato una certa tenuta nel respingere – anche se in alcuni momenti con poca determinazione – le violenze nel corso dell’assalto.
Negli Stati Uniti, dunque, lo Stato di diritto ha superato questa difficile prova, ma l’attacco a Capitol Hill non va sottovalutato. Esso è come la punta di un iceberg, sotto la quale si nascondono gravi problemi sociali e istituzionali che, dopo quattro decenni di globalizzazione liberista, hanno fatto svanire il “sogno americano”. Perfino lo Stato di diritto è a rischio se non poggia su un largo consenso, perché le varie forme di populismo spingono il popolo contro le élite liberali e democratiche. A rischio vi è la democrazia stessa quando non si realizza uno stato sociale di diritto, una democrazia sociale, in cui il profilo sostanziale del principio dell’uguaglianza è in grado di avvalorare effettivamente pure il profilo formale del principio.
Gli Stati Uniti, dunque, dovranno quanto prima porre mano a misure di sicurezza sociale, rilanciare gli interventi sanitari in un Paese rimasto impantanato nella pandemia. Joe Biden, già nei primi cento giorni della sua presidenza, dovrà iniziare ad attuare il suo programma di riforme promesso nel corso della campagna elettorale per attenuare le profonde fratture presenti nella società americana.
La connessione tra giustizia e libertà, tra stato di diritto e diritti sociali riguarda anche le società democratiche degli Stati membri dell’Unione europea: essa è alle prese con i casi di Polonia e Ungheria, in cui è stata perfino compromessa la separazione dei poteri, nonostante lo Stato di diritto costituisca un principio di diritto dell’Unione stessa. Anche nello spazio pubblico europeo, per contrastare i populismi sovranisti e la radicalizzazione politica occorrerà realizzare un vero e proprio welfare europeo per “vaccinare” – è il caso di dirlo, di questi tempi – le istituzioni democratiche.